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Maruska Albertazzi è nata a Bologna nel 1976. Diplomata in Florida, laureata in Comunicazione di Massa a Bologna, giornalista professionista, ha lavorato prima come attrice e aiuto regista in teatro e, in seguito, come giornalista televisiva, sceneggiatrice, autrice e infine regista.

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Va in scena la malattia

Va in scena la malattia

Della brutta faccenda del casting per ragazze malate di disturbi alimentari che io stessa ho denunciato e che è stato ripreso e condannato su ogni sito, social, radio e trasmissione televisiva, si è detto anche troppo. Si è parlato dell’inopportunità di chiamare la malattia “caratteristica”, dell’effetto distonico che scaturisce dal parlare di patologie mortali con un tono da televendita, della lucida selezione del dolore.

“Per una nota trasmissione televisiva stiamo cercando ragazze dai 20 ai 25 anni che soffrono di disturbi alimentari. Se avete queste caratteristiche scrivete a…” recitava con tono yeah la bionda responsabile casting di una nota agenzia televisiva. L’indignazione è stata unanime ma, come spesso accade, si è fermata in superficie. E’ facile indignarsi per una selezione di persone malate che nei toni e nelle parole assomiglia a quella di un concorso di bellezza, meno facile scavare in profondità e affrontare il vero problema, quello di riuscire a sensibilizzare senza strumentalizzare. Nel caso specifico, lo sgomento era legato soprattutto alla trasmissione oggetto del casting, un noto programma televisivo – così riferisce una delle ragazze contattate per partecipare – in onda su una rete nazionale in cui si mettono in scena delle cause legali utilizzando attori o persone che hanno un vissuto simile a quello dei contendenti.

Nella replica dell’agenzia dell’annuncio, nel tentativo di spegnere la rabbia dell’opinione pubblica, si parla invece di una trasmissione che avrebbe coinvolto medici e persone malate per informare e sensibilizzare sui disturbi alimentari. Posto che ci si chiede quale sia questa fantomatica trasmissione e come mai non cercasse più genericamente persone malate e non solo ragazze e di un’età specifica, il punto è che non sarebbe meno grave. Per una ragazza che soffra di anoressia o bulimia, il fatto stesso di poter partecipare a una trasmissione televisiva grazie alla sua malattia è di per sé un rinforzo a rimanere nel disturbo. Il passaggio è semplice: se non fosse malata, non andrebbe in tv, dunque quella è la sua dote migliore, l’unica cosa per cui valga la pena che gli altri la ascoltino. Guarire, significa dunque tornare ad essere poco interessante per il resto del mondo, una come tante, insignificante. Questo è il pensiero che anima la mente di una persona malata di disturbi del comportamento alimentare quando la sua malattia rappresenta un vantaggio specifico e questo è il motivo per cui la sensibilizzazione deve necessariamente – in questo caso – passare per storie di guarigione, non di malattia. Per queste patologie, la rappresentazione mediatica è sempre pericolosa, per chi guarda perché può dar vita molto facilmente a processi di emulazione, per chi viene rappresentata perché ottiene dalla malattia quello che ha sempre desiderato e non è mai riuscita ad ottenere: un’identità, per giunta degna di nota.

Una storia di guarigione, al contrario, è una storia di speranza, un modello positivo, la conferma che un corpo sano non è meno interessante di uno malato. Scegliere di raccontare il superamento della malattia, concedendo meno tempo e meno immagini alla sofferenza, al dolore, al sangue, significa non strizzare l’occhio alla morbosità di chi guarda ma tendere la mano a chi soffre.

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