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Maruska Albertazzi è nata a Bologna nel 1976. Diplomata in Florida, laureata in Comunicazione di Massa a Bologna, giornalista professionista, ha lavorato prima come attrice e aiuto regista in teatro e, in seguito, come giornalista televisiva, sceneggiatrice, autrice e infine regista.

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La non banalità del male

La non banalità del male

Il discorso sull’infanticidio che sta popolando quotidiani e social in questi giorni – a seguito dei recenti fatti di cronaca – è frutto dell’ignoranza diffusa in tema di salute mentale che ancora è presente nel nostro paese. Da un lato, chi chiama la madre assassina “malata”, quasi trovando una giustificazione al delitto compiuto, dall’altro, chi la chiama “mostro” e crede che l’elemento psichiatrico sia solo una scusa per evocare un’attenuante.

Quello che manca è invece un discorso serio, crudo e complesso sulla patologia mentale e sugli elementi che concorrono o meno a determinare azioni aberranti come queste.

In uno studio di Veronica Bignetti del 2017, che analizza la differenza tra neonaticidio e infanticidio, emerge che nel primo caso sembra esserci alla base una sorta di istinto brutale volto al mantenimento del proprio benessere psicologico, un’azione impulsiva che si verifica anche in altre specie di mammiferi e che è spesso riferibile a gravi problemi di marginalizzazione sociale. Le donne che invece commettono infanticidio sono quasi sempre persone con importanti compromissioni psichiche ma senza problemi economici o di network sociale.

Questo significa che mentre i primi sono evitabili grazie ai programmi di prevenzione post partum di tanti ospedali, volti a individuare, segnalare e curare le pazienti a rischio grazie a parametri psicologici e sociali, i secondi hanno un tasso di prevedibilità molto più basso.

Un altro elemento che distingue questi due i delitti è quello legato alla premeditazione. Mentre i neonaticidi sono impulsivi, gli infanticidi sono più spesso premeditati. Ed è proprio il carattere istintivo degli uni rispetto agli altri a costituire, in sede di processo, un’attenuante che nell’altro caso non viene concessa.

La madre che uccide il figlio non più neonato non è povera, non è sola – o almeno non lo è se non per volontà propria – non è ignorante e individuarla dall’esterno non è semplice. E’ sicuramente una persona malata ma la sua malattia è quasi invisibile a una società abituata a considerare “pazzo” solo chi sente le voci e parla coi muri. E no, la malattia mentale non basta per definire una criminale. La maggior parte dei pazienti psichiatrici non compie delitti contro la persona ed è anzi più spesso vittima che carnefice. La donna che uccide il figlio è dunque anche una persona dall’indole crudele, dove per crudeltà intendiamo comportamenti che nuocciono agli altri senza portare a chi li compie un vantaggio diretto. E’ nella commistione tra malattia mentale e crudeltà che si consuma il delitto più inconcepibile per la mente umana ed è lì che vanno cercati i sintomi, i segnali di quella che potrebbe diventare una tragedia. Imparare a riconoscere quella sospensione nello sguardo, quella mancanza di calore ed empatia, quella distanza così innaturale per una madre può contribuire ad evitare l’irreparabile, così come smetterla di considerare il ricorso al medico psichiatra un’umiliazione insostenibile. Parlare liberamente e senza filtri di malattia mentale non significa cercare attenuanti per questi orribili delitti ma fornire elementi di prevenzione importanti che potrebbero limitare ulteriori drammi in futuro.

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